venerdì 28 novembre 2008

Veronesi vs Rubbia

Cambiamento del clima e salute dell'uomo, oncologo e Nobel per la fisica a confronto
Il protocollo di Kyoto è insufficiente, come evitare la catastrofe ambientale?

Veronesi: solo il nucleare ci salverà

Rubbia frena: non è l'unica alternativa

di DARIO CRESTO-DINA

MILANO - Dice Umberto Veronesi: "Il governo italiano deve costruire dieci centrali nucleari nei prossimi dieci anni". È il suo modo di allontanare i fantasmi: prenderli di petto, a costo di finire nella bufera. Dall'altra parte del tavolo il premio Nobel per la Fisica, Carlo Rubbia scuote la testa: "Umberto, non è così che troveremo un equilibrio tra la produzione di energia e i mutamenti climatici". Il dialogo tra i due, che saranno assieme a settembre a Venezia nella terza conferenza mondiale sul futuro della scienza voluta dall'oncologo milanese, riapre un dibattito che dividerà ancora una volta la politica e i ricercatori.

[...]

FONTE: http://www.repubblica.it/2007/03/sezioni/ambiente/energie-pulite/veronesi-rubbia/veronesi-rubbia.html

“Ci salveremo solo se cambieremo il nostro modo di produrre energia". Dice Rubbia e io aggiungo che dobbiamo cambiare soprattutto il modo di vivere, perché il nostro benessere è e sarà la fonte della nostra rovina.
Non dico che dobbiamo tornare a vivere come gli uomini primitivi, perché il progresso è comunque un fatto positivo, ma a pensare come i nostri predecessori più lontani, nel senso che in passato, e non parlo solo di migliaia ma anche di cinquant’anni fa, si faceva più attenzione alla natura perché si viveva a stretto contatto con essa e quindi non veniva danneggiata così tanto e la si rispettava: purtroppo al giorno d’oggi sono poche le persone che vivono in questo modo. Dato che non si può rifondare la società, dobbiamo attuare un piano di profondo rinnovamento del pensiero generale: bisognerebbe pensare al di là dei propri interessi, soprattutto all’ambiente e a come si prospetta per le generazioni future, dovremmo metterci nelle mani di ecologisti e scienziati e farci guidare sulla strada migliore per risparmiare le risorse e proteggere il pianeta. D’altra parte è l’uomo che ha osato cambiare queste regole, e ora ne prova le dure conseguenze.

Noi, schiavi del consumismo, dovremmo sovvertire questo sistema e tornare a seguire le regole che ci detta la natura, non quelle del mercato. Questa riflessione avviene proprio dopo quella dell’altro giorno riguardo il tradizionalismo di Sallustio, la differenza sta nel fatto che lui parlava della società, qui invece dei magnifici risultati che ha raggiunto.



martedì 18 novembre 2008

Pronta la legge per i dottori

PER I CITTADINI SARÀ MENO AUTOMATICO POTER CITARE I MEDICI IN GIUDIZIO

«L'errore non sarà più reato» Pronta la legge per i dottori

Nove cause su dieci si concludono con l'assoluzione. Santelli: depenalizziamo. Ma imperizia e negligenza resteranno punite


ROMA — Destino inesorabile per otto su dieci. Denunciati e trascinati in tribunale per sospetta malpractice. Accusati di aver sbagliato. Un rischio che i chirurghi devono mettere in preventivo e dal quale cercano di difendersi con tutte le armi. Ricorrendo ad esempio alla cosiddetta medicina difensiva, cioè prescrivendo al paziente cure, ricoveri, esami che in cuor loro ritengono superflui ma che risulterebbero solidi scudi in caso di processo. Ogni anno il sistema sanitario pubblico sborsa tra 12 e 20 miliardi per analisi di tipo precauzionale. Una proposta di legge appena depositata ha l'obiettivo di alleggerire «il disagio di fronte alla crescita prepotente del contenzioso medico legale e alla richiesta di risarcimento a tutti i costi».

Un progetto di depenalizzazione dell'errore medico annunciato già a giugno dal sottosegretario al Welfare Fazio, e auspicato dalle categorie dei camici bianchi, chiamati da famiglie e pazienti a sostenere battaglie giudiziarie infinite che in quasi 9 casi su 10 si concludono con l'assoluzione. Primi firmatari Iole Santelli (vicepresidente commissione Affari Costituzionali) e Giuseppe Palumbo (presidente Affari sociali), entrambi Pdl, il provvedimento introduce nel codice penale e civile una serie di aggiunte e nuovi articoli che definiscono la colpa professionale legata ad un atto medico e chiariscono i meccanismi del nesso di causalità. «Ora la giurisprudenza non dà margini di certezza, i tribunali decidono in modo discrezionale, non c'è uniformità e i cittadini possono fare causa contro tutti e tutto», spiega la Santelli. «Un conto sono imperizia e negligenza che continueranno ad essere punite e resteranno nell'ambito penale — aggiunge Palumbo —. Un altro sono gli errori che non derivano da omissioni o superficialità tecnico scientifica. E allora la causa è civile».

Insomma, sarà meno automatico per i cittadini citare il dottore in giudizio. La legge si affianca a quella già in discussione al Senato, avviata da Antonio Tomassini. Obiettivi «modesti», si spiega nella premessa: «Alleggerire la pressione psicologica sul medico e l'animo a volte vendicativo del paziente nei confronti dei sanitari, accelerare la soluzione delle vertenze giudiziarie». Particolare importanza viene attribuita alle caratteristiche dei periti, al ruolo delle assicurazioni e al consenso informato. Un anno di carcere per chi «sottopone una persona contro la sua volontà a un trattamento arbitrario». «Siamo il Paese col maggior numero di denunce contro la categoria, assieme al Messico — lamenta Rocco Bellantone, segretario della società italiana di chirurgia —. Solo in Italia i reati medici vengono puniti penalmente, altrove si dà per scontato che chi opera o prescrive una cura non ha un atteggiamento lesivo. Quando sbagliamo siamo accomunati a chi commette un omicidio in stato di ubriachezza». Tra gli specialisti più tartassati, i ginecologi-ostetrici, su cui pesa la doppia responsabilità di mamma e bambino. Tra le contestazioni più frequenti, il ritardato cesareo.
Margherita De Bac16 novembre 2008

FONTE: http://www.corriere.it/cronache/08_novembre_16/errore_medico_depenalizzato_citare_medici_giudizio_e7b88b34-b3bc-11dd-b392-00144f02aabc.shtml


Credo che ormai si siano create delle situazioni assurde, perché alla fine se un medico sbaglia a diagnosticare la malattia è perché:
- o non è preparato a sufficienza, quindi la colpa del medico è relativa perché sono le università che preparano alla professione, perciò si dovrebbe essere più severi nell’ambito dell’istruzione e meno in quello giudiziario;
- può capitare una svista o errore nel decifrare i sintomi, però per questo non bisogna diffidare nel medico perché una volta in tutta la carriera può fare uno sbaglio, e anche se il medico è responsabile della vita del paziente è eccessivo che per un errore, magari non dovuto necessariamente alla non conoscenza o all’inesperienza, venga portato in tribunale.
I medici spesso non si trovano nelle condizioni idonee per lavorare, quindi è molto più facile che incorrano in errori o superficialità, inoltre per la paura di ritrovarsi in un processo prescrivono ai pazienti cure inutili, questo arreca solo danno allo stato e ai cittadini.
D’altra parte anche i pazienti possono essere troppo meticolosi nell’accusa, quindi in questi casi non sono da incolpare i medici.
In qualunque caso credo che sia eccessivo portare i medici in tribunale per un processo.


mercoledì 12 novembre 2008

Multietica o Multietnica?


1 novembre 2008

Vedo l’etica come la guida dell’agire personale, l’etnia, invece, come il gruppo di persone con cui si condividono delle caratteristiche comuni come l’origine, le tradizioni, la cultura, la religione etc.
L’etica è qualcosa di più personale: indirizza le decisioni, distingue cos’è bene e cosa male, delinea i propri limiti; invece l’etnia influenza meno, perché pone dei limiti e delle distinzioni che ha stabilito la società e non la persona stessa.
Credo che i limiti della società siano meno importanti di quelli posti dall’etica personale, perché il non rispettare i primi vorrebbe dire andare contro la società, invece il non rispettare la propria etica vuol dire andare contro se stessi. Per questo motivo talvolta le persone rinunciano a rispettare i limiti della società per seguire quelli dettati dalla propria etica.
In conclusione, l’etica è più rilevante perché è la prima cosa che l’uomo prende in esame quando deve fare una scelta, infatti le persone prima si chiedono se è giusto per se stesse e poi se lo è per gli altri.

venerdì 7 novembre 2008

Una nuova lingua si impara per osmosi

L’altra sera, a una festa, ho intercettato la conversazione di due “sciure” milanesi, preoccupate per le conseguenze della riforma Gelmini sul futuro scolastico dei loro bambini. Su un punto soltanto davano ragione alla “ministressa”: quello delle famose classi ponte per insegnare la lingua italiana ai figli di immigrati. Motivo altruistico: “Poveri bambini, in classe arrancano e sono isolati perché non capiscono niente. Meglio farli arrivare nella classe normale quando già parlano l’italiano”. Così ho pensato che di questo argomento si è detto molto in termini sociali, etici e politici (non che non serva, ovviamente), ma che per una volta la scienza qualcosina da dire ce l’avrebbe. E allora diciamolo.

E cominciamo con il ricordare che l’apprendimento di una seconda lingua è un argomento studiatissimo, anzi, uno dei primi argomenti studiati dalle scienze cognitive insieme alla rappresentazione cerebrale delle aree del linguaggio di Broca e Wernicke! Non ci vorrebbe molto, quindi, a progettare un sistema didattico che tenga conto di quanto sappiamo sui meccanismi di apprendimento invece che su altre questioni, ma vabbé…

La fonte più diretta di apprendimento di una lingua è la lingua stessa, come hanno dimostrato vari studi: e per imparare in fretta, il contatto con la nuova lingua dovrebbe avvenire a un livello solo un tantino più complesso del proprio, in particolare per quanto riguarda il vocabolario (almeno secondo la
monitor theory del linguista Stephen Krashen). Ciò significa che se si vuole insegnare rapidamente una nuova lingua ai bambini, bisogna certamente prevedere dei corsi ad hoc per fornire loro qualche elemento di partenza.

Attenzione, però, perché già negli anni ‘90 Mike Long, linguista dell’Università del Maryland, ha dimostrato sperimentalmente la cosiddetta teoria dell’interazione, ovvero che l’acquisizione di una nuova lingua è accelerata e migliorata dall’uso della stessa nelle interazioni quotidiane.

Scoperta dell’acqua calda, in un certo senso, giacché fin dall’800 si spediscono i giovani a imparare una nuova lingua all’estero e si cerca di tenereli separati dai loro concittadini affinché la full immersion abbia effetto. E che già basterebbe a smentire l’idea che le classi separate siano un servizio a favore del bambino straniero, che non verrebbe esposto all’italiano o che si troverebbe esposto a un italiano quantomeno traballante, visto che condividerebbe la giornata con altri “non parlanti”. Aggiungiamoci che il cosiddetto insegnamento esplicito (cioè quello formale, basato su fonologia, semantica e grammatica) ottiene risultati inferiori al cosiddetto insegnamento sociopragmatico (banalmente, imparo perché mi serve comunicare). Certo, poi bisogna correggere gli errori dell’apprendimento spontaneo con quello formale, e a questo dovrebbero servire i corsi di lingua per stranieri erogati, però, da personale appositamente preparato (la didattica non è mica cosa che si improvvisa!) e che la scuola non può esimersi di offrire, se il suo scopo è l’integrazione (linguistica, ma non solo).

Anche sugli errori, peraltro, vi sono due teorie: a grandi linee, secondo i seguaci di Chomsky e della sua teoria della grammatica universale, gli errori che fanno i bambini che imparano una seconda lingua sono solo dovuti alla scarsa performance, specie se l’esposizione alla nuova lingua avviene dopo la cosiddetta “età critica” (quella entro la quale si ha accesso facilmente ai meccanismi della grammatica universale e quindi si impara meglio e più in fretta), concetto peraltro ancora molto controverso. Per gli psicolinguisti, invece, gli errori sono affettivamente connottati, e dipendono anche dalle situazioni emotive che hanno caratterizzato la fase di apprendimento: la nuova lingua è servita a crearsi nuove amicizie o è stata fattore di esclusione? I genitori danno valore ai progressi compiuti e vedono positivamente l’integrazione scolastica e linguistica oppure no?

Diversi studi dimostrano anche che lo stress abbassa la performance linguistica, e infatti tutti noi parliamo una lingua straniera molto peggio se stiamo facendo un esame piuttosto che conversando amabilmente intorno a un tavolo (e anche questo dovrebbe far riflettere sulla proposta di istituire esami di italiano per l’ammissione a scuola, valutazione attualmente fatta informalmente dagli insegnanti che osservano il bambino nella vita di tutti i giorni). In tutti i casi, la separazione dei nuovi arrivati dai bambini italiani ne ritarderebbe l’integrazione linguistica.
Scritto Mercoledì, 5 Novembre, 2008 alle 13:08 nella categoria
Neurolinguistica, Apprendimento, Politica.

FONTE:

http://ovadia-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/11/05/una-nuova-lingua-si-impara-per-osmosi/

INFORMAZIONI SULL'AUTORE DELL'ARTICOLO:

http://www.agenziazoe.it/ovadia.htm


Sono d’accordo sul fatto che si apprende meglio e più in fretta confrontandosi quotidianamente con la lingua che si sta imparando, perché quando c’è bisogno di farsi capire si riesce a trovare una soluzione. In tutti gli aspetti della vita, dall’apprendimento scolastico all’imparare a cucinare, è più facile, più semplice, più produttivo sperimentare direttamente perché si impara molto dagli errori, ad esempio: dopo aver dimenticato una volta di mettere lo zucchero in un dolce, non lo si dimentica più. Però è anche vero che senza una base dalla quale partire è difficile imparare, quindi secondo me è indispensabile che, per l’apprendimento, ci siano entrambe queste metodologie: lo studio delle regole e la prova in campo.
Tenere separati i bambini stranieri dagli italiani potrebbe aumentare la fatica dell’inserimento e dell’integrazione nella società, e d’altra parte i bambini italiani li considereranno sempre diversi dato che li vedono separati dagli altri e tenderanno a giudicarli sempre solo in base alla loro origine e non per gli altri aspetti che caratterizzano le persone.
Inoltre, credo che quest’idea di separazione dei bambini stranieri, nasca da un sentimento razzista, sul quale ho già espresso la mia opinione nell’altro commento sull’intervista di Don Black.

mercoledì 5 novembre 2008

Parla il leader del nazionalismo bianco

Parla il leader del nazionalismo bianco, il movimento che negli Usasta crescendo contro i neri e gli immigrati. E contro il candidato democratico.

"Fermeremo Barack Obama, siamo il nuovo Ku Klux Klan"

Ma per Don Black, ex capo del Klan e fondatore del sito razzista Stormfrontnon è più tempo delle armi: "Dobbiamo organizzarci e conquistare il Partito repubblicano"

WEST PALM BEACH (FLORIDA) - "Se Barack Obama venisse eletto la nostra gente diventerebbe completamente pazza: è antitetico a tutto quello che è stata l'America fino ad oggi, sarebbe una cosa oltraggiosa". L'uomo che ho davanti parla piano, con lentezza, scandisce le parole, le pesa prima di pronunciarle. "Non è immaginabile che la nazione più potente del mondo, la guida dell'Occidente, possa essere comandata da un afroamericano radicale, legato ai terroristi che bombardarono il Pentagono. Da un uomo che ogni domenica per vent'anni ha ascoltato il suo pastore chiedere che Dio dannasse l'America". L'uomo che ho seduto davanti si chiama Don Black, ha 57 anni ed è oggi la guida del più grande movimento del "potere bianco" che ci sia negli Stati Uniti.


"Ma non è ancora detto che Barack Obama verrà eletto: nel Paese c'è un forte sentimento razziale che non si legge nei sondaggi, che corre sotto traccia, che potrebbe emergere come una sorpresa il 4 novembre". Don Black è stato il leader del Ku Klux Klan alla fine degli Anni Settanta, viene dall'Alabama e da vent'anni si è trasferito a vivere in Florida dove nel 1995 ha fondato Stormfront - "Fronte della tempesta" - il sito web del nazionalismo bianco: "144mila iscritti, 42mila visitatori ogni giorno".


"La minaccia rappresentata da Obama ci fa crescere settimana dopo settimana da mesi, la gente bianca sta mettendo fuori la testa, esce dal bosco in cui si era rifugiata, adesso si sente motivata ad alzarsi e a combattere per i suoi interessi. Dobbiamo mobilitarci prima che gli immigrati trasformino quella che era una nazione ricca e stabile in un Paese del Terzo Mondo". Don Black dice apertamente e tra virgolette quello che da mesi sento ripetere sui treni, nei bar, nei negozi in Pennsylvania e in Kentucky, in Florida o in South Carolina. Discorsi pieni di rabbia contro gli immigrati, contro chi non parla l'inglese, contro una società multirazziale che fa paura, contro Barack Obama che sarebbe il simbolo della vittoria della stagione dei diritti civili. È per questo che i movimenti suprematisti bianchi, i neonazisti e gli skinheads hanno ricominciato a crescere dopo anni di marginalità.


"Ci stiamo avvicinando a tempi rivoluzionari, non penso a qualcosa che abbia a che fare con le armi ma si sente un fervore nuovo: l'America è pronta per una nuova dichiarazione d'indipendenza. Dobbiamo tornare alle origini: questo Paese è stato fondato da coloni europei bianchi e da lì vengono la nostra cultura, le nostre tradizioni e i nostri valori". Don Black è cresciuto nel Ku Klux Klan - dove è arrivato a raggiungere la posizione di Grande Dragone, il grado massimo nella gerarchia interna -, viene da Birmingham la città dove più dura fu la battaglia contro la segregazione razziale, la città dove quattro bambine nere furono uccise nel 1964 da una bomba piazzata in una Chiesa battista. Nel 1974 insieme a Dave Duke, leader storico del KKK, tentò di trasformare il Klan in una forza politica: "Fallimmo per colpa della propaganda dei media che avevano screditato il movimento, avevamo la reputazione dei violenti e fu impossibile trasformare e rilanciare l'organizzazione. Ma ci rimase la convinzione che bisognava dare alle nostre idee una nuova faccia, legale e presentabile".

Gli chiedo allora se Stormfront non sia altro che il nuovo Ku Klux Klan, il Klan del Ventunesimo Secolo senza cappucci e simboli ariani. "Sì, è così", risponde d'istinto. Accanto a Don Black è seduto il figlio Dereck, 19 anni, l'organizzatore della radio su internet di Stormfront. Dall'inizio del nostro incontro ascolta in silenzio, ma adesso interrompe il padre: "Non lo hai mai detto, non lo puoi dire". Si agita e cerca di fermare con la mano il discorso: "Lo sai che non lo puoi dire". Il padre resta immobile: "Non lo direi mai ad un giornalista americano, ma lo sai che è vero".

Dereck, cappello di pelle da cowboy australiano sempre in testa, è la nuova faccia del suprematismo bianco ed è stato eletto nel direttivo di Repubblicani della contea di Palm Beach. Il segretario del partito non lo vuole e si oppone alla sua elezione, ma i Black stanno dando battaglia: "Il leader locale, che è un ebreo - sottolinea il padre - non lo vuole far sedere, ma Dereck è stato eletto con il 60 per cento dei voti e le regole democratiche devono essere rispettate". Questa battaglia apparentemente minore è cruciale per il futuro del movimento del "white power": "Non è più tempo per cercare di creare un terzo partito destinato alla marginalità, dobbiamo presentarci ad ogni elezione primaria dentro il partito repubblicano così da imporre i nostri temi nel dibattito, dobbiamo lavorare per creare un nostro gruppo di interesse, per restaurare le tradizioni e i veri valori bianchi".

La prova generale c'è stata nel giugno del 2007, quando il Congresso bocciò la legge di regolarizzazione di milioni di immigrati illegali voluta da George Bush: "Abbiamo fatto la nostra parte: ci siamo mobilitati al massimo per fare pressioni in ogni collegio sui deputati e i senatori. Abbiamo vinto perché la maggioranza dei cittadini ha paura che l'America diventi come Haiti. Non esiste la possibilità di una reale integrazione: un messicano non può diventare un vero cittadino americano, perché non si può cambiare la natura delle persone e l'ambiente conta fino ad un certo punto. Non illudiamoci: alla fine sarebbero loro a trasformare noi a farci diventare un Paese sottosviluppato". E qui il figlio puntualizza: "Se non cambiamo in fretta, entro quarant'anni noi bianchi saremo una minoranza".

Don e Dereck Black fanno sentire la loro voce tutti i giorni insieme a quella di David Duke su internet, ma non amano le interviste e hanno accettato l'incontro perché il giornale è italiano: "Ci piace il vostro Paese: c'è molta eccitazione sul nostro sito per quello che sta succedendo da voi, siete i primi e a reagire a dimostrare che non vi fate sottomettere dagli immigrati. Anche David Duke la pensa così, tanto che passa la maggior parte del suo tempo nel nord Italia e l'anno scorso eravamo tutti a sciare sulle Dolomiti". Ma alla domanda su dove viva Duke si raffreddano: "Questo preferiamo non dirlo, ci tiene al fatto che la cosa resti riservata".

L'incontro avviene da "Flanigan's bar and grill" a West Palm Beach, un locale poco lontano dalla villetta con la bandiera sudista dove abitano. Il locale di legno non ha finestre e al bancone a forma di ferro di cavallo sono tutti rigorosamente bianchi. L'appuntamento è nel parcheggio. Don Black, che è un omone altissimo, arriva camminando a fatica, appoggiandosi ad un bastone: ha avuto un ictus tre mesi fa. "Il recupero è lento e faticoso ma ogni giorno faccio miglioramenti".

Black è un programmatore di computer, per questo è stato il primo a immaginare che la galassia del razzismo bianco potesse sbarcare su internet. Non lo racconta mai, ma ha imparato ad usare le tecnologie in una prigione federale del Texas dove ha scontato una condanna a tre anni per aver tentato un colpo di stato nell'isola caraibica di Dominica. Agli agenti federali che lo arrestarono, mentre stava per salpare da New Orleans su una nave carica di armi automatiche ed esplosivi, disse: "Volevamo creare un regime anticomunista, lo facevamo nell'interesse degli Usa e ci sentiamo traditi".


Gli chiedo subito del Ku Klux Klan, della violenza e degli omicidi. "Il Klan ha grandi meriti, ha restaurato l'ordine nel Sud dopo la Guerra Civile, oggi si cerca di riscrivere la storia ma era una forza veramente positiva". Ma i linciaggi e le bombe? "C'è stata violenza negli Anni Sessanta, ma è stata enfatizzata e usata contro di noi dai media". Non c'è niente di cui pentirsi? A fatica Don Black bisbiglia: "Ci sono state cose sbagliate", per aggiungere subito: "Ma i processi che si celebrano oggi, quarant'anni dopo, contro membri dell'organizzazione sono solo processi politici". Gli ricordo la bomba di Birmingham e le bambine ammazzate: "Non si dimentichi che io ero solo un ragazzino allora, ma tante volte mi chiedo: chi c'era dietro? Perché dopo quella bomba il governo spazzò via tutte le istituzioni del Sud e aprì scuole e università". Nostalgico della segregazione razziale? "Non penso che sia più proponibile, ma in certi posti funzionava: nelle scuole c'era più sicurezza".

Voterete per John McCain?, chiedo alla fine. "I due candidati sono assolutamente uguali, vogliono l'amnistia per gli immigrati e continuare a far intervenire il nostro esercito in giro per il mondo: così si buttano via un sacco di soldi e si impoverisce l'America. Noi siamo contro l'intervento in Iraq dal primo giorno, ci siamo andati solo perché la lobby ebraica dirige la nostra politica estera. Però resta il fatto che uno dei due è nero e se entrasse alla Casa Bianca saremmo arrabbiati e demoralizzati, non ci potremmo sentire rappresentati da lui. I Padri fondatori avevano pensato ad una nazione bianca e questo non va dimenticato. E' tempo che i bianchi americani si alzino e si battano per i loro interessi e per i loro diritti. La minaccia di Obama ci motiva". Stormfront ha 144mila iscritti. "Quello - precisa mentre mi saluta - era il dato del mese scorso". (29 ottobre 2008)


FONTE:
http://www.repubblica.it/2008/10/speciale/altri/2008elezioniusa/nuovo-klan/nuovo-klan.html


Mi stupisco quando vedo che le persone hanno dei pregiudizi così forti, e cerco di convincermi che stiano scherzando, ma dopo aver letto questo articolo non mi stupirò più. La cosa che mi lascia più attonita è il vedere quanta convinzione ci mettono le persone nel sostenere questi pregiudizi, perché ad esempio sostengono un candidato al posto di un altro solo perché è di razza bianca.
Se Obama fosse stato bianco, seguendo il ragionamento di Don Black, poiché crede che i programmi dei due candidati alla Casa Bianca propongano le stesse cose, sarebbe stato indifferente un presidente piuttosto che un altro: è una forte discriminazione preferire una persona solo per il colore della sua pelle.
"Se non cambiamo in fretta, entro quarant'anni noi bianchi saremo una minoranza".
I bianchi razzisti hanno paura di perdere il loro posto, i loro privilegi, il loro potere, e quindi non accettano che qualcuno estraneo alla loro élite li governi. Se questi bianchi hanno paura che questo possa accadere vuol dire che sono coscienti di non essere così forti, ma sanno di essere deboli, e non danno agli altri il modo di vederlo nascondendosi dietro a razzismo e xenofobia.
Il potere attira le persone, che pur di non perdere i benefici vanno contro il bene della società.