venerdì 7 novembre 2008

Una nuova lingua si impara per osmosi

L’altra sera, a una festa, ho intercettato la conversazione di due “sciure” milanesi, preoccupate per le conseguenze della riforma Gelmini sul futuro scolastico dei loro bambini. Su un punto soltanto davano ragione alla “ministressa”: quello delle famose classi ponte per insegnare la lingua italiana ai figli di immigrati. Motivo altruistico: “Poveri bambini, in classe arrancano e sono isolati perché non capiscono niente. Meglio farli arrivare nella classe normale quando già parlano l’italiano”. Così ho pensato che di questo argomento si è detto molto in termini sociali, etici e politici (non che non serva, ovviamente), ma che per una volta la scienza qualcosina da dire ce l’avrebbe. E allora diciamolo.

E cominciamo con il ricordare che l’apprendimento di una seconda lingua è un argomento studiatissimo, anzi, uno dei primi argomenti studiati dalle scienze cognitive insieme alla rappresentazione cerebrale delle aree del linguaggio di Broca e Wernicke! Non ci vorrebbe molto, quindi, a progettare un sistema didattico che tenga conto di quanto sappiamo sui meccanismi di apprendimento invece che su altre questioni, ma vabbé…

La fonte più diretta di apprendimento di una lingua è la lingua stessa, come hanno dimostrato vari studi: e per imparare in fretta, il contatto con la nuova lingua dovrebbe avvenire a un livello solo un tantino più complesso del proprio, in particolare per quanto riguarda il vocabolario (almeno secondo la
monitor theory del linguista Stephen Krashen). Ciò significa che se si vuole insegnare rapidamente una nuova lingua ai bambini, bisogna certamente prevedere dei corsi ad hoc per fornire loro qualche elemento di partenza.

Attenzione, però, perché già negli anni ‘90 Mike Long, linguista dell’Università del Maryland, ha dimostrato sperimentalmente la cosiddetta teoria dell’interazione, ovvero che l’acquisizione di una nuova lingua è accelerata e migliorata dall’uso della stessa nelle interazioni quotidiane.

Scoperta dell’acqua calda, in un certo senso, giacché fin dall’800 si spediscono i giovani a imparare una nuova lingua all’estero e si cerca di tenereli separati dai loro concittadini affinché la full immersion abbia effetto. E che già basterebbe a smentire l’idea che le classi separate siano un servizio a favore del bambino straniero, che non verrebbe esposto all’italiano o che si troverebbe esposto a un italiano quantomeno traballante, visto che condividerebbe la giornata con altri “non parlanti”. Aggiungiamoci che il cosiddetto insegnamento esplicito (cioè quello formale, basato su fonologia, semantica e grammatica) ottiene risultati inferiori al cosiddetto insegnamento sociopragmatico (banalmente, imparo perché mi serve comunicare). Certo, poi bisogna correggere gli errori dell’apprendimento spontaneo con quello formale, e a questo dovrebbero servire i corsi di lingua per stranieri erogati, però, da personale appositamente preparato (la didattica non è mica cosa che si improvvisa!) e che la scuola non può esimersi di offrire, se il suo scopo è l’integrazione (linguistica, ma non solo).

Anche sugli errori, peraltro, vi sono due teorie: a grandi linee, secondo i seguaci di Chomsky e della sua teoria della grammatica universale, gli errori che fanno i bambini che imparano una seconda lingua sono solo dovuti alla scarsa performance, specie se l’esposizione alla nuova lingua avviene dopo la cosiddetta “età critica” (quella entro la quale si ha accesso facilmente ai meccanismi della grammatica universale e quindi si impara meglio e più in fretta), concetto peraltro ancora molto controverso. Per gli psicolinguisti, invece, gli errori sono affettivamente connottati, e dipendono anche dalle situazioni emotive che hanno caratterizzato la fase di apprendimento: la nuova lingua è servita a crearsi nuove amicizie o è stata fattore di esclusione? I genitori danno valore ai progressi compiuti e vedono positivamente l’integrazione scolastica e linguistica oppure no?

Diversi studi dimostrano anche che lo stress abbassa la performance linguistica, e infatti tutti noi parliamo una lingua straniera molto peggio se stiamo facendo un esame piuttosto che conversando amabilmente intorno a un tavolo (e anche questo dovrebbe far riflettere sulla proposta di istituire esami di italiano per l’ammissione a scuola, valutazione attualmente fatta informalmente dagli insegnanti che osservano il bambino nella vita di tutti i giorni). In tutti i casi, la separazione dei nuovi arrivati dai bambini italiani ne ritarderebbe l’integrazione linguistica.
Scritto Mercoledì, 5 Novembre, 2008 alle 13:08 nella categoria
Neurolinguistica, Apprendimento, Politica.

FONTE:

http://ovadia-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2008/11/05/una-nuova-lingua-si-impara-per-osmosi/

INFORMAZIONI SULL'AUTORE DELL'ARTICOLO:

http://www.agenziazoe.it/ovadia.htm


Sono d’accordo sul fatto che si apprende meglio e più in fretta confrontandosi quotidianamente con la lingua che si sta imparando, perché quando c’è bisogno di farsi capire si riesce a trovare una soluzione. In tutti gli aspetti della vita, dall’apprendimento scolastico all’imparare a cucinare, è più facile, più semplice, più produttivo sperimentare direttamente perché si impara molto dagli errori, ad esempio: dopo aver dimenticato una volta di mettere lo zucchero in un dolce, non lo si dimentica più. Però è anche vero che senza una base dalla quale partire è difficile imparare, quindi secondo me è indispensabile che, per l’apprendimento, ci siano entrambe queste metodologie: lo studio delle regole e la prova in campo.
Tenere separati i bambini stranieri dagli italiani potrebbe aumentare la fatica dell’inserimento e dell’integrazione nella società, e d’altra parte i bambini italiani li considereranno sempre diversi dato che li vedono separati dagli altri e tenderanno a giudicarli sempre solo in base alla loro origine e non per gli altri aspetti che caratterizzano le persone.
Inoltre, credo che quest’idea di separazione dei bambini stranieri, nasca da un sentimento razzista, sul quale ho già espresso la mia opinione nell’altro commento sull’intervista di Don Black.

2 commenti:

il tommy ha detto...

secondo me invece l'idea di classi separate, per lo meno inizialemente, non è una cattiva idea perchè se questi bambini stranieri vengono iscritti in una classe di componenti "diversi" da loro, potrebbe crearsi imbarazzo. Anche perchè, tralasciando eventualmente tutte le questioni di integrazione etc, bisogna ricordare che i bambini stranieri non hanno mai parlato la nostra lingua mentre i bambini italiani si, per quest'ultimi si tratta perciò di un perfezionamento. Per i primi invece si parte da zero quindi secondo me andrebbero inizialmente istruiti sulla lingua e poi integrati successivamente quando una "infarinatura" minima c'è già.

il tommy ha detto...

secondo me l'idea di creare classi separate per i bambini stranieri è una buona idea. Tralasciando il discorso di integrazione etc, si deve tenere presente che i bambini stranieri non hanno mai parlato la nostra lingua, mentre i bambini italiani sono crescuiti a contatto con essa. Perciò questi sono avvantaggiati rispetto a primi perchè una base l'hanno già. Una volta ottenuta l'"infarinatura" base verranno riuniti. Questo ragionamento va riferito solo alle ore di lingua secondo me